Perchè un italiano su tre pagherebbe di più per acquisti sostenibili?

Un terzo degli italiani è pronto a pagare di più se il prodotto o il servizio acquistato è sostenibile. Il 31% è infatti disposto a fare acquisti sostenibili, anche se questo ha un impatto sulle finanze.
Inoltre, il 46% accetterebbe di scendere a compromessi sul proprio stile di vita a beneficio dell’ambiente. Ad esempio, consumando meno energia, mangiando meno carne o limitando la plastica monouso. È quanto emerge da un sondaggio realizzato da Ipsos per l’edizione 2023 del Salone della Csr e dell’innovazione sociale, condotto a maggio 2023 su un campione di 1000 persone over 16.

La transizione ecologica ha un costo

I dati del sondaggio mettono in evidenza una novità importante: ormai è chiaro ai cittadini che la transizione sostenibile ha un costo, e che perseguirla richiede e richiederà la sottrazione di risorse ad altri ambiti, o aumentare il prelievo fiscale, se non addirittura entrambi.
Oggi, a 11 anni dalla prima edizione del Salone, gli italiani sono pronti alla sfida e lo dimostrano nel quotidiano. L’89% delle famiglie si impegna nella raccolta differenziata, l’88% nel risparmio energetico, l’87% nel ridurre il consumo idrico. E il 60% acquista prodotti biologici, pur con un’ampia forbice tra chi lo fa abitualmente (19%) e chi ‘abbastanza’ (41%).
Il quadro è identico nella scelta dei prodotti del marcato equo e solidale, che si attesta al 56% delle preferenze, con il 17% di consumatori abituali e il 39% che diversifica maggiormente l’acquisto.

Ma i benefici supereranno largamente i disagi

“Quello che non cambia, invece, è la consapevolezza che abitare il cambiamento è impegnativo e richiede di uscire dalle proprie abitudini – commenta Andrea Alemanno, Principal di Ipsos Strategy3 -. Molti si sentono pronti a ‘traslocare’, ma questa disposizione ideale è frenata dalle conseguenze negative, se comparate con un effetto non altrettanto certo. Infatti per il 58% degli italiani sarà impossibile realizzare transizioni energetiche, ambientali, digitali e sociali senza avere ripercussioni negative su alcuni membri o settori della società. Quasi la metà (45%) si attende ripercussioni limitate e gestibili, e solo il 18% ritiene che i benefici supereranno largamente i disagi. Accelerare questa fase di trasformazione è fondamentale”.

Un Salone dedicato all’innovazione sociale

Il programma 2023 del Salone della Csr è articolato in 12 aree tematiche che toccheranno diversi ambiti, dalla gestione sostenibile della casa all’innovazione nell’agrifood, dall’energia alla comunicazione e dalla finanza alla cultura.
Un tema centrale sarà la valutazione degli impatti generati: anche per questo il Salone promuove la seconda edizione del Premio Impatto. Dopo il successo del 2022, riferisce Adnkronos, l’augurio è di poter contare sulla partecipazione di un numero sempre maggiore di imprese e associazioni non profit, che raccontino perché è importante misurare il valore creato dalle proprie attività.

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Il settore della Blue Economy vale 143 miliardi di euro

Il settore della Blue Economy in Italia è in rapida crescita, come evidenziato nell’XI Rapporto sull’Economia del Mare dell’Osservatorio Nazionale sull’Economia del Mare (OsserMare) di Informare con il Centro Studi Tagliacarne – Unioncamere. Attualmente, ci sono 228.000 imprese che operano nella Blue Economy, che danno lavoro a quasi 914.000 persone e generano un valore aggiunto di 52,4 miliardi di euro. Se si considera l’intera filiera diretta e indiretta, il valore totale arriva a 142,7 miliardi di euro.
Il rapporto evidenzia anche la crescita significativa del settore. Tra il 2022 e il 2021, il numero di imprese nel sistema marittimo è aumentato dell’1,6%. Le esportazioni sono cresciute del 37%, mentre il valore diretto prodotto è aumentato del 9,2% tra il 2021 e il 2020. Questi dati testimoniano la vitalità e la resilienza della Blue Economy italiana.
Antonello Testa, coordinatore nazionale di OsserMare, sottolinea l’importanza di conoscere i valori economici aggiornati dell’Economia del Mare per definire la strategia marittima del paese. Il Rapporto Nazionale sull’Economia del Mare fornisce uno strumento evoluto per monitorare le dinamiche di questo macrosettore.

Un comparto che vince in resilienza

Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del Centro Studi Tagliarne, commenta sottolineando che la Blue Economy ha dimostrato di essere leader in termini di resilienza e sviluppo in Italia. Nonostante l’impatto negativo della pandemia, il settore ha mostrato una crescita del valore aggiunto del 9,2% nel 2021, contribuendo a recuperare quasi interamente le perdite del 2020. Si prevede un ulteriore sviluppo nel 2022, soprattutto nei settori della cantieristica e della logistica. Nel dettaglio, le attività di alloggio e ristorazione sono state il principale motore di crescita dell’economia blu, registrando un aumento del 22,1% tra il 2021 e il 2020. La filiera della cantieristica ha segnato un aumento del 11,7%, seguita dalla filiera ittica con un aumento dell’8%. Anche gli altri settori, come le attività sportive e ricreative, la movimentazione di merci e passeggeri via mare e le attività di ricerca, regolamentazione e tutela ambientale, hanno mostrato dinamiche positive.

La maggior parte della ricchezza proviene dal Centro Sud

La maggior parte della ricchezza prodotta dalla Blue Economy proviene dal Centro e dal Sud Italia, che insieme contribuiscono al 61% del valore del settore nel 2021. La Liguria ha un ruolo di primo piano, rappresentando l’11% del valore prodotto dall’economia del mare a livello regionale.
La cantieristica si conferma il settore trainante delle esportazioni, registrando una crescita del 40,7% nel 2022 rispetto all’anno precedente. Il saldo commerciale è diventato positivo, con un avanzo di 1,9 miliardi di euro nel 2022, grazie a una riduzione significativa delle importazioni.

Il 10% delle aziende è guidato da giovani

Dal punto di vista imprenditoriale, quasi il 10% delle aziende nella Blue Economy è guidato da giovani under 35, mentre oltre il 20% è guidato da donne. La maggior parte delle attività imprenditoriali nel settore si concentra nel Mezzogiorno e nel Centro Italia. La regione con il maggior numero di aziende blu è il Lazio, seguito da Campania e Sicilia. La Liguria, invece, ha il peso maggiore in termini di incidenza delle imprese del mare sul totale del sistema imprenditoriale regionale.

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I genitori italiani dedicano più tempo a figli e famiglia 

Lo conferma un sondaggio condotto da Novakid: sono i genitori italiani quelli che passano più tempo in famiglia. Nel nostro Paese infatti si passa più tempo insieme ai figli rispetto a Spagna, Francia, Germania, Turchia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Circa il 32% dei genitori italiani dichiara infatti di passare con i figli più di 4 ore al giorno durante la settimana. Percentuale che corrisponde, ad esempio, solo al 18% dei francesi. E nel fine settimana il tempo passato con i figli aumenta: il sabato e la domenica sono oltre il 77% i genitori italiani che passano almeno 4 ore al giorno con i figli, e oltre il 29% dedica alla famiglia anche più di 6 ore al giorno. Molto più di quanto rilevato in Spagna (21%), Germania (26,1%) e Francia (10%). Nonostante questo, molti genitori italiani pensano che non sia abbastanza, e si sentono in colpa.

Giocare, cucinare e guardare film o cartoni

Cosa fanno in Italia genitori e figli quando sono insieme? Principalmente giocano (59%), cucinano e preparano dolci (36%), guardano film o cartoni animati in TV (50%).
Non sembra essere molto diffusa la lettura, scelta solo dal 16,3% dagli italiani, mentre è molto più popolare in Turchia (42%) o in Francia (30,1%). In coda alla lista delle attività scelte per il tempo libero, vedere amici o familiari (10%).
I compiti, naturalmente, assorbono parte del tempo libero delle famiglie. E se l’85% dei genitori italiani dedica al massimo un’ora e mezza al giorno a questa attività, in Francia, Spagna e Germania la percentuale è più alta.

Le attività del tempo libero vanno pianificate

Organizzare il tempo libero con i bambini richiede pianificazione? A quanto pare si, perché solo l’11% dei genitori italiani dichiara di non programmare il tempo libero. Percentuale che scende al 7,3% in Spagna e al 7% in Germania. E chi decide cosa si fa durante il fine settimana o nel pomeriggio libero? In molti casi sono i bambini stessi a scegliere cosa fare, tanto che il 50% dei genitori in Italia dichiara di chiedere ai figli cosa preferiscono fare. Percentuale che sale al 64% in Francia e al 66,5% in Germania. Dopo i figli, la seconda opzione è quella di consultarsi con il partner (43,3%).

Il senso di colpa per non stare insieme abbastanza

Le idee su cosa fare nel fine settimana con i bambini arrivano anche dai social media (36,7%) e dalle newsletter a cui i genitori sono iscritti (14,7%), oppure da amici o altri genitori con figli che propongono attività da fare insieme (14,7%).
Ma la maggioranza dei genitori di tutti i paesi prova una sorta di ‘senso di colpa genitoriale’ per non condividere abbastanza tempo con i propri bambini. In Italia la percentuale è il 72%, mentre negli altri paesi si va dal 54% dei genitori spagnoli a oltre il 76% in Francia. Al contrario, in Italia la percentuale di genitori che ritengono di passare abbastanza tempo con i figli è il 15,3%.

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Entro il 2027 andranno in pensione 2,7 milioni di italiani 

Sono 2,7 milioni gli occupati che nei prossimi 5 anni andranno in pensione per aver raggiunto il limite di età. Secondo le stima dell’Ufficio studi della CGIA, che ha elaborato i dati del Sistema informativo Excelsior di Unioncamere e Anpal, con la legislazione vigente tra il 2023 e il 2027 quasi il 12% degli italiani lascerà definitivamente il posto di lavoro.  Nel periodo considerato, il mercato del lavoro italiano richiederà in totale 3,8 milioni di addetti, di cui 2,7 milioni (il 71,7%) in sostituzione delle persone destinate ad andare in pensione, e più di un milione di nuovi ingressi (il 28,3%) legati alla crescita economica prevista in questo quinquennio.  La metà degli addetti che nei prossimi anni scivolerà verso la quiescenza, poco meno di 1,4 milioni, riguarderà i dipendenti privati, oltre 670mila il pubblico impiego, e altrettanti i lavoratori autonomi.

Le posizioni e i settori interessati “dall’esodo”

Tuttavia, se si calcola l’incidenza della domanda sostitutiva sul totale del fabbisogno occupazionale nelle tre posizioni professionali principali (dipendenti privati, dipendenti pubblici e indipendenti), il valore più elevato, pari al 91,6% del totale, riguarderà il pubblico impiego. Quanto alle filiere produttive/economiche più interessate dall’esodo degli occupati verso la pensione, in termini assoluti sono la Sanità (331.500 addetti), le attività immobiliari, noleggio/leasing, vigilanza/investigazione, altri servizi pubblici e privati (come pulizia, giardinaggio e PA esclusa sanità, assistenza sociale e istruzione), che contano 419.800, e commercio e turismo (484.500).

Il Made in Italy perderà una quota significativa di maestranze

Se, anche in questo caso, si misura l’incidenza della domanda sostitutiva sul fabbisogno occupazionale, i settori che entro i prossimi 5 anni si troveranno maggiormente in difficoltà saranno la Moda (91,9%), l’Agroalimentare (93,4%) e il Legnoarredo (93,5 %). Insomma, i principali settori del nostro Made in Italy rischiano di non poter più contare su una quota importante di maestranze di qualità e di elevata esperienza. Di fatto, il progressivo invecchiamento della popolazione italiana sta provocando un grosso problema al mondo produttivo.

Ma la difficoltà di reperimento è già un problema

Da tempo, ormai, gli imprenditori, anche del Sud, denunciano la difficoltà di trovare sul mercato del lavoro sia personale altamente qualificato sia figure professionali di basso profilo. Se per i primi le difficoltà di reperimento sono strutturali, a causa del disallineamento tra scuola e mondo del lavoro in alcune aree del Paese, per le seconde si tratta di opportunità di lavoro che spesso i nostri giovani rifiutano di accettare, e solo in parte vengono ‘coperte’ dagli stranieri. Una situazione che nei prossimi anni è destinata a peggiorare. In primo luogo, per gli effetti della denatalità, e in secondo per la cronica difficoltà a incrociare la domanda e l’offerta di lavoro.

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La capacità di spesa degli italiani scende del 54%

Un clima di incertezza che si riflette direttamente sui consumatori, che iniziano ad avvertire in modo intenso la diminuzione del loro potere d’acquisto. Pandemia, conflitto russo-ucraino, impennata dei costi dell’energia e rialzo dell’inflazione sono i fattori che recentemente hanno colpito gli ecosistemi economici, produttivi e sociali. Tanto che in un solo anno la capacità di spesa degli italiani risulta infatti più che dimezzata, scendendo al -54%, e il 26% delle famiglie teme di non arrivare alla fine del mese. Un dato confermato anche dall’ultima rilevazione Istat, che vede le vendite al dettaglio diminuire dello 0,8% in volume.
Si tratta di alcune evidenze emerse dall’Osservatorio Changing World di Nomisma, che consente di interpretare e anticipare i cambiamenti sociali in corso, e di indagare aspettative, valori, bisogni e modelli di acquisto dei cittadini.

Non basta adottare strategie di risparmio 

Nell’ultimo anno l’88% delle famiglie ha adottato opportune strategie di risparmio per far fronte al rincaro dell’energia e all’aumento generale dei costi. Nonostante questo, il 14% degli intervistati ritiene di guadagnare meno di quanto avrebbe bisogno per sostenere le spese necessarie.
Peraltro, il 25% delle famiglie si ritrova a spendere tutto quello che guadagna solo per far fronte alle spese strettamente necessarie, come utenze, imprevisti che riguardano la propria abitazione, alimentazione, senza potersi permettere altro.

L’economia è condizionata dall’incertezza 

Solo un italiano su due spende meno di quello che guadagna, riuscendo così a risparmiare qualcosa senza dover fare troppe rinunce. E a guidare la ricerca del risparmio è soprattutto l’incertezza, che condiziona pesantemente questa fase del ciclo economico. Il 38% di chi risparmia lo fa proprio perché il futuro sembra essere troppo incerto, mentre il 23% mette soldi da parte per affrontare con tranquillità eventuali spese impreviste.
Dai risultati della ricerca emerge che negli ultimi 12 mesi la capacità di risparmio sia diminuita o molto diminuita per il 54% degli italiani.

Una quotidianità profondamente modificata

Ma guardando al futuro le prospettive non sembrano migliori. Non solo le famiglie temono di non riuscire a risparmiare, ma il 26% di esse teme di non riuscire ad arrivare alla fine del mese. E pensare al risparmio familiare o capire come poter risparmiare parte del reddito è motivo di ansia e stress per un italiano su due.
“L’attuale periodo storico e gli avvenimenti degli ultimi tre anni hanno modificato e continuano a modificare profondamente la quotidianità degli italiani – evidenzia Valentina Quaglietti di Nomisma, come riporta Adnkronos -. Se da un lato abbiamo preso coscienza del fatto che si è delineato un new normal che nulla ha a che vedere con il pre-pandemia, dall’altro si è diffusa anche la consapevolezza che sarà sempre più ricorrente il verificarsi di nuove normalità”.

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Gli aumenti dei tassi fanno lievitare le rate del mutuo

Oltre 3.000 euro annui in più rispetto a solo due anni fa. Ecco quanto si ritrova a pagare chi accende oggi un mutuo, sia fisso sia variabile. Lo rivela il Codacons che, attraverso alcune simulazioni ha messo a confronto le offerte presenti oggi sul mercato per le tipologie di mutuo più richieste in Italia, allo scopo di capire come le decisioni della Bce sui tassi di interesse abbiano influito sulle tasche delle famiglie.

Quanto costa oggi un mutuo?

L’analisi evidenzia che un mutuo a tasso variabile costa oggi fino a +3.624 euro all’anno rispetto al 2021, mentre chi accende oggi un finanziamento a tasso fisso si ritrova a spendere fino a +3.144 euro annui rispetto a due anni fa. A settembre 2021, prima della scia di rialzi varata dalla Bce, per un mutuo a tasso variabile da 150.000 euro della durata di 30 anni il migliore Taeg sul mercato era pari allo 0,48% con una rata mensile pari a 442 euro, mentre il tasso fisso registrava un Taeg dell’1,04% e una rata mensile da 481 euro – spiega il Codacons –. Oggi, per la stessa tipologia di finanziamento, la migliore offerta sul mercato prevede un Taeg del 3,16% e una rata mensile da 627 euro sul variabile; per il tasso fisso Taeg 3,15% e rata mensile da 631 euro, con un incremento di spesa pari rispettivamente a +185 euro e +150 euro al mese sul 2021.

Cosa cambia su un mutuo da 100mila o 200mila euro

Per un mutuo da 100.000 euro della durata di 25 anni, a settembre 2021 il Taeg sul tasso variabile era dello 0,42% con una rata mensile pari a 346 euro, mentre il tasso fisso registrava un Taeg dello 0,98% e una rata da 370 euro. Oggi, per lo stesso mutuo, il Taeg sale al 3,10% sul variabile, 3,49% sul fisso, con una maggiore rata mensile rispettivamente da +122 e +116 euro rispetto a due anni fa.
Cattive notizie per chi ha acceso (o vuole oggi accendere) un mutuo da 200.000 euro della durata di 20 anni: qui per il tasso variabile il Taeg passa dallo 0,39% e una rata mensile pari a 858 euro del settembre 2021 al 3,62% di oggi e una rata mensile pari a 1.160 euro, con un incremento di spesa da +302 euro a rata. Per il tasso fisso si passa da un Taeg dello 0,86% e rata mensile da 903 euro a un tasso del 3,80%, e rata mensile da 1.165 euro (+262 euro a rata).

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Conto corrente addio: costa troppo

Quattro milioni di italiani hanno deciso di cambiare banca. E non perchè non siano soddisfatti dei servizi offerti, bensì per l’aumento dei costi di gestione di un semplice conto corrente. D’altronde, i costi sono aumentati in maniera significativa. Rispetto al 2022, i prezzi hanno visto un balzo verso l’alto tra l’8% e il 26%, con costi compresi fra i 28 e i 154 euro annui.

I numeri dell’esodo 

A “dare i numeri” del fenomeno è Facile.it, che ha effettuato un’indagine ad hoc realizzata sull’Indicatore dei Costi Complessivi (ICC) dei conti offerti oggi da sei primari istituti bancari. Con tali rincari, dunque, non sorprende vedere che molti italiani abbiano scelto di cambiare istituto di credito; il dato è confermato dall’indagine che Facile.it ha commissionato agli istituti mUp Research e Norstat da cui è emerso che, nell’ultimo anno, il 15,1% dei correntisti, pari a 5,6 milioni di individui, ha detto di aver cambiato conto corrente e, tra questi, 4,4 milioni hanno dichiarato di averlo fatto a causa dell’eccessivo costo.

La metà di chi cambia non è soddisfatta del costo del canone annuo base

Analizzando più nel dettaglio le motivazioni che hanno spinto un così altro numero di italiani a cambiare banca, si scopre che la prima volte è proprio legata al pezzo. Il 53,2% lo ha fatto perché giudicava troppo alto il canone annuo base (si arriva fino al 59,1% nella fascia 25-34 anni ed al 56,3% al Sud e nelle Isole); il 31,5% perché riteneva eccessivo il costo delle singole operazioni (41,4% nella fascia 35-44 anni e 34,9% al Sud e nelle Isole) ed il 25% perché i costi (fissi o variabili) avevano subito aumenti eccessivi nel corso dell’anno. Altra ragione di cambiamento è stata la qualità del servizio: il 21,6% ha dichiarato di aver lasciato il proprio conto perché il servizio offerto non era all’altezza, l’11,1% non riteneva valido l’home banking, mentre il 9,7% ha cambiato perché il conto non era dotato di funzionalità digitali.

Quanto costa un nuovo conto?

Ma quanto si spende oggi per mantenere un conto corrente? Facile.it ha esaminato l’ICC (Indicatore dei Costi Complessivi) dei conti correnti offerti oggi da sei primari istituti bancari e confrontato i valori con quelli disponibili per altrettanti profili di clienti rilevati nel 2022 scoprendo che i prezzi sono saliti sia per i conti tradizionali sia per quelli online con incrementi che, a seconda del profilo di utilizzatore, variano tra l’8% e il 26%. Oggi, quindi, per mantenere un nuovo conto corrente si spende, in media, fra i 28 e i 154 euro annui. L’aumento è stato rilevato per tutti i profili di utilizzo e, in termini percentuali, si fa sentire di più sui conti storicamente meno costosi: i giovani (rincari tra il 13% e il 22%), le famiglie con operatività bassa (10-20%) e i pensionati con operatività bassa (10%-26%).

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Mercato del lavoro: nel 2022 sono stati creati 412mila posti 

Può portare una seppur leggera ventata di ottimismo la notizia ufficiale relativa alla creazione di nuovi posti di lavoro nel corso del 2022. Complessivamente, sono stati attivati – nell’anno appena trascorso – 412mila i nuovi rapporti a tempo indeterminato di lavoro. Lo rende noto la nota di gennaio redatta congiuntamente dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dalla Banca d’Italia e da Anpal, sulla base delle comunicazioni obbligatorie e delle dichiarazioni di immediata disponibilità al lavoro.

Saldo positivo tra assunzioni e cessazioni  

La nota congiunta evidenzia che Il 2022 si chiude con un saldo positivo tra assunzioni e cessazioni (382mila unità), sebbene inferiore a quello del 2021 (602mila). Si tratta comunque di un risultato soddisfacente, se confrontato con il dato del 2019 (308mila), prima cioè dell’emergenza sanitaria. L’incremento della domanda di lavoro è rimasto sostenuto fino all’inizio dell’estate, trainato soprattutto dal turismo, per poi rallentare a causa soprattutto dell’indebolimento del settore delle costruzioni. Nella manifattura le attivazioni nette sono state superiori a quelle del 2021: in questo settore la creazione dei posti di lavoro è proseguita a tassi sostanzialmente costanti anche negli ultimi due mesi dell’anno, nonostante il rallentamento nei comparti a maggiore intensità energetica.

Trasformazioni da determinato a indeterminato

Nel complesso è da segnalare il saldo positivo dei rapporti di lavoro dipendente a tempo indeterminato sottoscritti nel 2022 (+412mila), che ha beneficiato del gran numero di trasformazioni determinate dal consolidamento della ripresa nella prima parte dell’anno, mentre è sostanzialmente stabile il saldo dei rapporti a termine (+23 mila) ed è diminuito il ricorso all’apprendistato (-53mila).

Occupazione femminile e divario nord-sud le criticità

In questo contesto esistono tuttavia ancora delle criticità da risolvere. Si tratta in particolare dell’andamento dell’occupazione femminile e del divario tra Nord e Sud del Paese. Nel 2022 la crescita dell’occupazione femminile è stata inferiore a quella maschile: i saldi sono stati rispettivamente +152mila e +230mila unità. A dicembre l’incremento dell’occupazione femminile si è sostanzialmente arrestato. Per quanto concerne le differenze geografiche, nel 2022 la crescita delle attivazioni nette si è concentrata nel centro-nord (+302mila) a un tasso ben più alto rispetto all’anno precedente: nel 2021 questo era infatti pari a circa il 68%, mentre nel 2022 è salito al 79%. Nelle regioni meridionali la fase espansiva si è interrotta una volta esaurita la spinta del comparto edile, che aveva contribuito alla crescita occupazionale del 2022 per circa il 30%.

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A Natale 2022 con crisi e inflazione meno regali sotto l’albero

Secondo l’indagine sui consumi di Natale realizzata da Confcommercio in collaborazione con Format Research, nel 2022 tre italiani su quattro hanno fatto i regali di Natale, ma il 27,3% non ha acquistato nulla. In primo luogo per risparmiare, poi per il peggioramento della propria condizione economica, oppure per l’aumento dei prezzi a causa dell’inflazione. Insomma, anche il Natale 2022 è come gli ultimi due ‘figlio’ di una situazione eccezionale. Se nel caso del Natale 2020 e di quello 2021 il Covid aveva fortemente condizionato l’andamento dei regali, quest’anno a pesare in modo decisivo sono l’aumento dell’inflazione e la crisi energetica. 

I più regalati: prodotti enogastronomici, giocattoli, libri

In ogni caso, in cima alla lista dei regali più diffusi si confermano i prodotti enogastronomici (70%), seguiti da giocattoli (49%), libri ed ebook (48%), abbigliamento (47%), e prodotti per la cura della persona (41%). Ma tra i regali che registrano l’incremento maggiore rispetto all’anno scorso si segnalano i prodotti per animali (+8,4%), e per chi ha scelto di acquistare online i regali si confermano in cima alla lista anche quest’anno carte regalo (77,8%) e abbonamenti streaming (76,4%). E al di là dei regali rivolti al proprio nucleo familiare, il 50,3% degli italiani ha fatto regali ad amici e conoscenti, e ad acquistarli sono stati prevalentemente i coniugi in coppia.

Budget di spesa: per un italiano su tre non supera 100 euro

Quanto al budget di spesa stanziato per gli acquisti, il 64% ha speso tra 100 e 300 euro, mentre 1 consumatore su 3 non ha superato i 100 euro. Della tredicesima, comunque, solo una piccola parte è stata destinata ai regali, mentre il ‘grosso’ se n’è andato per spese per la casa, tasse e bollette. Tra coloro che percepiscono la tredicesima, quasi un terzo infatti l’ha usata per affrontare spese per la casa e la famiglia, il 24% la metterà da parte, il 19,2% la userà per pagare tasse e bollette, e solo il 14,5% l’ha utilizzata per acquistare i regali di Natale.

Canali di acquisto: Internet ancora al top, ma salgono i negozi di vicinato 

Tra i canali di acquisto preferiti, Internet si conferma al primo posto (64,6%), anche se in calo per la prima volta dal 2009, mentre salgono le preferenze per i negozi di vicinato. Internet, dopo il boom dello scorso anno, quest’anno infatti rallenta, confermandosi comunque il canale di acquisto principale per i regali di Natale. Seguono la distribuzione organizzata (56,7%), gli outlet e i punti vendita del commercio equo-solidale Aumentano poi gli acquisti presso i negozi di vicinato, passati dal 42,5% al 45%, segno che gli italiani stanno riscoprendo il piacere di vivere il proprio quartiere e le vie dello shopping.

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Il 70,8% degli italiani possiede una casa

L’Italia è uno dei Paesi con il più alto numero di proprietari di abitazioni. Il 70,8% delle famiglie italiane è infatti proprietario della casa in cui vive, e il 28,0% possiede altri immobili. Ma la proprietà non è prerogativa solo dei benestanti: tra le famiglie più povere il 55,1% è proprietario dell’abitazione in cui vive, e la percentuale aumenta fino all’83,9% tra i più abbienti. La percentuale di famiglie proprietarie è più elevata tra le coppie con figli (73,9%) e tra i residenti nelle piccole città: 76,1% nei comuni fino a 2.000 abitanti, e 74,3% in quelli tra 2.000 e 10.000 abitanti.
Sono alcuni dati emersi dal 1° Rapporto Federproprietà-Censis, Gli italiani e la casa, realizzato con il contributo della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) e in collaborazione con Cassa Depositi e Prestiti (Cdp).

Bene rifugio e specchio della propria identità

Per il 91,9% degli italiani la casa è un rifugio sicuro, soprattutto dopo il Covid, e l’89,7% è tranquillizzato dall’essere proprietario della propria abitazione. Per l’83,1% la casa riflette anche la propria identità e personalità, e il 54,5% vorrebbe aiutare figli o nipoti ad acquistare la prima casa, perché l’immobile di proprietà resta la pietra angolare della sicurezza economica ed esistenziale.
La pandemia ha poi contribuito a rendere multifunzionali le abitazioni, e se il 47,1% degli italiani lavora ancora da remoto il 96,3% degli studenti è attrezzato per seguire le lezioni in Dad. In casa gli italiani fanno anche sport (43,7%), cucinano (89,3% e coltivano parte delle relazioni sociali (84,5%). Al 17,7% poi capita di curarsi in casa o ricevere assistenza a domicilio.

Il comfort abitativo

Per l’87,2% degli italiani gli spazi della propria abitazione sono adeguati, e la casa è confortevole. Il 29,5% ha apportato cambiamenti importanti a seguito alla pandemia per adeguare gli spazi alle nuove esigenze. Cresce anche l’attenzione per la salubrità degli ambienti e la sostenibilità della casa: l’88,9% la ritiene salubre, e l’84,4% è pronto a renderla più sostenibile attraverso il controllo dei consumi energetici. Il 51,7% dei proprietari è inoltre convinto che il valore della propria abitazione non sia aumentato negli ultimi dieci anni. In effetti, tra il 2010 e il 2019 i prezzi degli immobili residenziali in Italia sono diminuiti del 16,6% per poi registrare un +4,6% tra il 2019-2021 e un +5,2% nel secondo trimestre del 2022.

Disagio abitativo e housing sociale

Sono però fortemente aumentati i costi legati alla casa. Per il 76,5% degli italiani tali costi pesano molto sul budget familiare, e per il 71,7% le tasse relative alla proprietà sono troppo alte. Il 5,9% degli italiani però vive in condizione di deprivazione abitativa. A questo si aggiunge il disagio degli studenti fuori sede. Una soluzione innovativa è l’housing sociale, avviato dal Piano nazionale di edilizia abitativa, che prevede un sistema integrato di fondi immobiliari con al centro il Fondo Investimenti per l’Abitare gestito da Cdp Immobiliare Sgr.

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